Per le società di comodo, la domanda di contributi o finanziamenti pubblici, poi non erogati dall’ente incaricato a esprimersi in materia, rappresenta una situazione oggettiva in grado di sollevare dalla presunzione legale di sussistenza emersa dal test di operatività, qualora il mancato beneficio dell’incentivo non sia imputabile al titolare dell’impresa. Compete al giudice di merito accertare che la particolare occasione rappresenta un fatto oggettivo, in grado di negare l’ottenuto della minima soglia presunta di ricavi. È quanto sancisce la Corte di Cassazione tramite Ordinanza n. 24667 del 14 settembre 2021.
Società di comodo: il caso di specie
Il caso in questione è nato dall’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate per la rettifica del reddito dichiarato dall’azienda nell’anno fiscale 2007 e l’adeguamento al limite minimo, emergendo gli estremi della società di comodo. Che, rifacendosi all’atto impositivo, ha invocato la mancata applicazione della disciplina in materia. Nella fattispecie, ha sostenuto che le agevolazioni previste nel contratto di programma non riconosciute hanno impedito il conseguimento di ricavi e la produzione di redditi entro la soglia minima stabilita.
Più esattamente, malgrado fosse stato messo a bilancio, tra le immobilizzazioni, un terreno iscritto aveva accusato un successivo intervento di natura oggettiva, il quale aveva impedito il regolare rispetto dei piani anzitempo concordati. Secondo lo scopo preliminarmente fissato, l’originaria modalità di destinazione prevedeva un insediamento industriale avente carattere agroalimentare. Un’iniziativa frutto dell’intesa raggiunta e sottoscritta dalla società medesima e dal Ministero delle attività produttive.
Il dietrofront del Mise
Il Ministero dello sviluppo economico aveva effettivamente attuato le misure tese alla revoca dei benefici inizialmente fissati nel contratto di programma. L’evolversi dei fatti aveva costituito un impedimento oggettivo, da cui ne derivava una rimodulazione dell’attività d’impresa in negativo.
Il ricorso avanzato dalla contribuente aveva trovato accoglimento presso la Commissione tributaria provinciale (CTP) ma la sentenza era stata riformata dalla Commissione tributaria regionale (CTR). La società aveva avanzato ricorso alla Corte di Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 30 n. 724/1994. In base alla tesi della difesa, la CTR avrebbe erroneamente applicato la norma in parola al caso di specie. Una presa di posizione, infine, ritenuta valida dai giudici di legittimità, che hanno ritenuto sussistente il motivo di doglianza e cassato con rinvio la sentenza impugnata.
Il pronunciamento della Cassazione
Nella specifica circostanza, la società aveva invocato, come causa del mancato raggiungimento del tetto minimo presunto dei ricavi, l’avvio negato dell’attività produttiva. In conseguenza del mancato riconoscimento delle agevolazioni stabilite nel contratto di programma, l’operazione precedentemente stabilita non ha potuto avere corso. Il successivo intervento delle autorità governative abilitate in materia ha comportato la perdita dell’affare.
I giudici di merito hanno, invece, completamente trascurato la valutazione di tale evento impeditivo, malgrado costituisca un fatto rilevante e determinante per la risoluzione della controversia insorta tra le parti chiamate in causa.
Sulla faccenda la Suprema Corte ha rimarcato che al giudice di merito compete l’onere di esaminare pure lo specifico comportamento messo in atto dal contribuente, in ambito della richiesta di incentivi pubblici, con riguardo alle ragioni della mancata concessione ed alla sussistenza delle condizioni imposte dalla legislazione agevolativa.
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